Le parole della musica. Il Silenzio.*

Il silenzio ha a che fare con la musica. Eccome. Possiamo dire, anzi, che è difficile entrare pienamente nel fenomeno musicale senza aver compreso, e vissuto, veramente il significato della parola silenzio.
Questo accade perché la musica è costruita sul silenzio. I suoni, infatti, emergono dal silenzio e ad esso ritornano. Il silenzio è per il compositore quello che per il pittore è la tela. I suoni sono i colori con cui “dipinge” il silenzio.

Come ha sottolineato giustamente il grande direttore d’orchestra Claudio Abbado:
“Il silenzio è una condizione del suono, anzi, in alcuni casi è il più sublime dei suoni. Sottolinea, amplifica, fa vibrare, fa risaltare, preannuncia, sospende, invade. E’ mezzo espressivo a tutti gli effetti”. 

Il silenzio è certamente qualcosa di misterioso, difficile da cogliere appieno senza una certa fatica. Eppure, possiamo dire che l’esperienza di silenzio che ognuno di noi può fare è centrale per cogliere e godere in profondità della musica.

Il compositore statunitense John Cage sosteneva, in parte a ragione, che “il silenzio assoluto non esiste” perché nella nostra esperienza “c’è sempre qualcosa che produce un suono”.
Ma il silenzio non è solamente un fenomeno “fisico acustico”, è qualcosa di più. Quando parliamo di silenzio ci viene subito in mente il silenzio interiore, quel silenzio in noi stessi che calma i turbini delle passioni, i tumulti del cuore, le ansie e i timori. Artisti, mistici e poeti si sono interrogati spesso rispetto al silenzio perché la sua dimensione è misteriosa e al contempo preziosissima.
Ogni creatività, infatti, trova nel silenzio la propria radice. Come abbiamo visto, la musica nasce dal silenzio ma, come sostiene il compositore estone Arvo Paart, il silenzio è sempre più perfetto della musica.

Che esistano o meno luoghi di silenzio perfetto, di assenza totale di suoni, ciò che è certo è che in passato l’uomo cercava, e costruiva, luoghi in cui coltivare il silenzio e la quiete. Lo descrive bene Murray Schafer nel suo saggio “Il Paesaggio sonoro”: “Così come ha bisogno del sonno e del riposo per rinvigorire e rinnovare le proprie energie vitali, così l’uomo ha anche bisogno di momenti di calma e di silenzio per rinnovare la propria serenità mentale e spirituale. Un tempo la quiete era un articolo prezioso nel codice non scritto dei diritti dell’uomo. L’uomo si riservava, nella propria vita, degli spazi di quiete per ricostruire il proprio metabolismo spirituale”.
Oggi, non solo questi spazi sono sempre di meno, ma siamo bombardati continuamente da stimoli sonori e rumori che impediscono di far esperienza di quel silenzio che è occasione di ristoro per l’anima ma, anche, precondizione per l’ascolto della musica.

Come la musica abbia incredibilmente a che fare con la dimensione del silenzio lo spiega bene il filosofo francese Vladimir Jankélévitch: “Il silenzio è quello che ci porta repentinamente sul bordo del mistero o sulla soglia dell’ineffabile, quando sono divenute evidenti la vanità e l’impotenza della parola (…) La musica nella sua totalità quindi, dato che fa tacere le parole e fa cessare i rumori, in certi casi può essere una reticenza del discorso. Del resto la musica stessa talvolta non si esprime esaustivamente, ma allusivamente e a mezze parole (…)”.
La musica, dunque, non solo si fonda sul silenzio, ma permette la piena comprensione del mistero del silenzio proprio perché essa mette a tacere il rumore e le parole lasciando spazio a ciò che è ineffabile, indicibile.

Eppure, l’uomo occidentale si avvicina con diffidenza al silenzio, anzi, quasi sempre lo rifugge. La società contemporanea prima ancora che società dell’immagine, è società del suono e del rumore. Tutto è permeato di suoni, di sibili, di voci, di fragore, di melodie, di ritmi. E’ un continuo affastellarsi di stimoli sonori. Il silenzio è qualcosa da rifuggire; creare suoni, rumori, effetti, ci fa sentire meno soli. Ci allontana dal silenzio definitivo, quello della morte.

Ci accorgiamo di quanto la pressione acustica che la nostra civiltà esercita su di noi sia preoccupante quando varchiamo la soglia di un monastero, o di una chiesa. L’entrare improvvisamente in una dimensione di quiete inizialmente ci mette a disagio, ci fa sentire addosso tutto il peso delle scorie sonore che ci portiamo dietro. Deve passare qualche attimo per riconoscere quel luogo come necessario e fecondo.
Qualcosa di simile accade quando siamo in attesa che il concerto inizi. I musicisti sono seduti e concentrati. Tra pochissimo l’attacco del direttore darà il via al concerto. Nella sala si crea un silenzio speciale. Un silenzio di quiete ma al tempo stesso di attesa, qualcosa che per un attimo unisce pubblico e musicisti. La sensazione che proviamo in quel momento è come se si stesse manifestando un silenzio che raramente viviamo in altre occasioni. Un po’ ci mette a disagio; al tempo stesso ci sorprende e ci stupisce.

Questo silenzio non è semplice assenza di suono. E’ pienezza di essere. Ed è proprio questo tipo di silenzio che è alla base della nostra capacità di ascoltare.
Arvo Paart esprime quest’idea in modo molto chiaro: “Il silenzio non ci è meramente dato, noi ci nutriamo di esso e questo nutrimento non è meno importante della stessa aria che respiriamo. Oggi siamo assediati dal superfluo, non c’è più distanza tra noi e le cose, non c’è lo spazio vuoto: la musica può aiutarci in questo discernimento”.

E’ proprio la crisi di questa capacità di vivere in profondità il silenzio come contemplazione, che rende difficile il nostro avvicinarci all’ascolto. Se manca la capacità di avventurarsi nella propria interiorità, allora qualsiasi ascolto sarà inutile.

Proprio perché la musica è quell’arte che tratta il suono, che origina dal silenzio, la mancanza di silenzio, inteso come la capacità di entrare nelle profondità si sé stessi, rende inutile la musica.
In realtà, il venir meno degli spazi di silenzio ha conseguenze ben più ampie. “Le forze del silenzio e dell’interiorità – scriveva Romano Guardini – minacciano di abbandonare l’Europa. Ma se queste se ne andranno davvero l’Occidente dovrà inaridire, perché la sua grandezza era alimentata nel più profondo da quelle forze”.

Avvicinarsi alla musica e al suo ascolto tentando di trarne profitto e gioia, significa fare i conti con il mistero del silenzio. Significa sfidare, con coraggio, l’iniziale spaesamento che si ha quando si resta soli con sé stessi. La musica invera e impreziosisce questo percorso perché ascoltare musica significa rimanere soli di fronte a quel silenzio che dice tutto di noi, ma che abbiamo paura ad ascoltare veramente. Un silenzio che diventa sonoro, che si impreziosisce delle note volute dal compositore, ma che non cambia la sua natura di luogo in cui l’uomo si presenta di fonte a sé stesso nella sua nudità. Infatti, in quel luogo, come scrive ancora splendidamente Jankélévitch, “Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, là l’uomo non può che cantare”.

Cristian Carrara

*Articolo pubblicato sul mensile “Francesco e il volto secolare” (FVS), rivista dell’Ordine Francescano Secolare d’Italia. Per maggiori informazioni:
OFS

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